martedì 17 novembre 2015

COME L'INVERNO, FALAFEL

Mi piacciono le cose che scricchiolano, se la neve sotto ai passi lenti, oppure le assi lunghe di legno affiancate a fare un pavimento. Lo scricchiolio è invernale e marrone e noi - io e te cioè - se stiamo abbastanza zitti e vicini e intensi, possiamo sentire scricchiolare una castagna mentre matura dentro al riccio, e lo schiude e nasce. Tra i cibi che scricchiolano, annoveriamo: la frutta secca, il cioccolato temperato e le fritture. Quindi faremo le falafel.
Si possono fare con i ceci, o con le fave, o con i fagioli, o mischiare queste cose alla maniera dei promiscui, ma noi useremo le fave, acquistate secche e con la buccia. Lasciamo le fave in ammollo per dodici ore in tanta acqua fredda e un pizzico di bicarbonato di sodio. Raddoppieranno il loro peso, allora noi ne prendiamo una ad una e la strofiniamo tra due dita, per far uscire il dentro e buttare il fuori.
Pesiamone 300 grammi e mettiamole nella ciotola della macchina con le lame, ciò che gli impuri chiamano cutter. Aggiungiamo una cipolla sbucciata senza piangere e mezzo cucchiaino di bicarbonato di sodio. In un mortaio mettiamo mezzo spicchio d'aglio privato dell'anima, che come tutte le anime è indigesta, un cucchiaino di cumino, uno di coriandolo, mezzo di sale grosso, quindi pestiamo. Aggiungiamo la poltiglia nella ciotola della macchina lamata e agiamo sull'interruttore con il duplice scopo di sminuzzare le fave e la cipolla e di mescolare tutti gli altri ingredienti. Il prezzemolo è un ingrediente molto usato per questa ricetta, ma secondo me il suo sapore si sovrappone al coriandolo, perciò direi o l'uno o l'altro.
Formiamo delle palline grandi come quelle da golf, stringendo forte per far uscire l'eccesso di liquido e poi le passiamo su dei semi di sesamo e le teniamo lì mentre l'abbondante olio di arachidi messo in un pentolino dal fondo spesso d'acciaio si scalda sul fuoco. Al raggiungimento della temperatura di 170° centigradi, che si potrebbe anche giudicare ad occhio, immergiamo le palline depositandole con l'aiuto di un cucchiaio, lasciamo sfrigolare fino a doratura, quindi le recuperiamo, ponendole dapprima in un colino d'acciaio a grondare, poi su carta assorbente e quindi si possono addentare, abbinando il piacere dello scricchiolio al sapore.
Sono buone calde, magari accompagnate da una salsa di semi di sesamo e ceci, chiamata humus, della cui preparazione non mi va granché di dire. Mi piacciono tanto le cose che scricchiolano, se la neve sotto ai passi lenti, oppure sotto ai denti sbriciare una falafel calda e croccante e marrone, come l'inverno.

giovedì 15 ottobre 2015

TOGLIMI GLI ALTRI SENSI

Il pianista siede sul panchetto (scricchiola), il pubblico trattiene il respiro, le luci si abbassano (gialline), il pubblico guarda le mani del pianista allungarsi sulla tastiera del pianoforte, il pianista non pensa a nulla, onestamente, svuota la sua mente dai nomi che gli uomini hanno scelto per le cose, trascendendo il significato, il segno perde il senno, il senso cede. Non c'è nulla in quell'attimo rarefatto, non c'è nemmeno la storia, tutto è sospeso nel limbo impalpabile di ciò che sarà, verrà, tra un'era, un secondo, o adesso. Il pianista è vuoto e non ha nulla con sé se non quella piccola, divina scintilla che tra poco accenderà un formidabile fuoco.

Il pubblico lo sa benissimo ma ancora ignora quanto sarà grande quel fuoco, il silenzio è carico come un fucile mitragliatore, il pianista ha il dito sul grilletto, l'occhio nel mirino, la consapevolezza di una pace inumana. Il pianista stringe il seme nelle sue mille mani, il pubblico ascolta il silenzio più pregno che conosca e non osa, non osa nemmeno pensare a ciò che quel seme sta per diventare quando...

"Dio è lesbica" - mi fa.
" Mh?"
"Se ci pensi, chi ha fatto tutto questo meccanismo, ha creato le persone, la natura, il colui cosiddetto essere superiore creatore, può essere soltanto una colei, una creatrice, una donna, capisci? come sesso dico, di genere femmina, che i maschi non ne sarebbero capaci, manderebbero tutto in malora, i soldi, gli appalti, sai, casini."
"Mh?"
"E dal momento che c'è questo fatto un po' puerile se vuoi della vergine Maria e via dicendo, ne consegue in tutta evidenza che il vero Dio è lei, Dio è femmina."
"Mh?"
"E in più è una femmina che ama un'altra femmina, infatti questa vergine Maria resta tale, cioè vergine, in un certo senso."
"Mh?"
"E quindi Gesù, anche se è un fatto che si vuole tenere giustamente nascosto, è stato adottato. E' questo in realtà il vero atto d'amore, capisci? L'adozione di Gesù."
"Mh?"
"Ed era tutto già lì, non c'era mica bisogno di inventare la risurrezione come fondamento della fede, che tra l'altro è un'idea inverosimile, insostenibile e che non resiste al tempo, al progresso, bastava dire che Gesù è stato adottato, capisci?"
"No, ma vieni qui, e risorgiamo".

Il pianista ha il dito sul grilletto, l'occhio nel mirino, la consapevolezza di quella pace inumana e ora ci siamo, ecco! Il pianista getta il seme, scocca la scintilla divina, ecco! lui tira il grilletto ed è fuoco, si snocciolano i suoni, gli spari, onde, carezze come dune, perturbazioni, radici, tronchi, rami, alberi, foreste, il mitra stende il pubblico, lo annienta, i birilli che saltano, la scintilla è rogo, divampano le anime, il pubblico è colpito, assorbe e soffre, che altro può fare? il pianista vola ma non è solo, trascina tutti nella sua scia, il vortice ci inebria, gira il mondo (o siamo noi?), girano gli astri nel meccanismo galattico, incessante, orologio dei tempi, e foglie e foglie e rami, come soffre il pubblico, ferito, arso, guarda come vola, che altro può fare? e il pianista mette le note lì dove devono stare, e lì docili, esatte e rosse restano nello spazio stretto d'una vibrazione atomica; freddo, caldo, gelo, inferno, noi non siamo niente ma siamo con te, come te, noi siamo te se tu sei noi, pianista, non smettere più, non. Smettere. Più.

Il pianista regala l'ultima nota, la tonica, poi si ferma, osserva il suo creato ancora un attimo; ora si può alzare. Il pubblico è attonito, il fragore di ciò che è stato ha stordito la coscienza comune, l'applauso non parte ancora, c'è chi non riesce a trattenersi e rompe in un pianto liberatorio, che altro può fare?

Là fuori piove ma siamo immuni ormai dagli agenti del mondo, il pianista ci ha sparato e siamo morti per rinascere più puri, abbiamo volato toccando il cielo, cos'altro potevamo fare?

Se ci sei, tu, Dio femmina, toglimi gli altri sensi, che io voglio solo sentire, solo sentire.

giovedì 22 maggio 2014

UNA DATA, UN FIGLIO E IL CUORE NUMERO TRE

Mattina presto, il padre si alza, si lava i denti, si rade e fa colazione con una spremuta d'arancia, poi si veste perché vuole andare al bar a mangiare un cornetto, esce di casa lasciando il letto sfatto, le tapparelle alzate e le bucce d'arancia nel cestino dei rifiuti umidi, chiude la porta di casa e sale in macchina, una piccola macchina nera da niente.

Mattina presto, in un'altra casa e in un'altra città, il figlio si alza, si lava i denti, fa colazione con una tazza di latte freddo e doppio caffè forte, fa gli addominali, si rade, poi una doccia veloce e si veste perché deve andare al lavoro, chiude la porta di casa e sale in macchina.

Il padre buongiorno un cornetto consuma paga sale di nuovo in macchina per tornare a casa ma all'incrocio ha un malore il cuore salta un turno e passa un camion rosso grande e veloce e di ferro rosso grande veloce e insensibile ai turni dei cuori procede prende in pieno la piccola macchina nera da niente che gira su se stessa e i vetri infranti e il corpo infranto e sirene polizia ambulanza elicottero ospedale rianimazione rianimazione, rianimazione.

Il figlio nel mezzo di una riunione di lavoro di estranei di niente insolitamente riceve una telefonata di sua sorella, Papà cuore turno camion ferro rosso incidente Cristosanto ma è grave? Sì vieni subito ma non correre, però.

Non corre.

L'ospedale è a due ore d'auto andando senza correre, andando nell'unico modo possibile incontro al destino, il destino di tutti così intricato che non ci puoi far proprio niente, l'ospedale è a due ore d'auto ed è grande ed è stato costruito sopra un bel colle che guarda i mille verdi della Tuscia, l'ospedale sul colle lo sa lui, ci pensa lui ad aggiustare i corpi infranti dai camion rossi di ferro, vero? Sulla ringhiera scrostata che porta al pronto soccorso, dei ragnetti arancioni corrono secondo una logica loro, cioè evitando sempre le macchie di ruggine e quando due di loro, percorrendo la stessa direzione ma in versi opposti, s'incontrano, se le danno giù di santa ragione e secondo un protocollo forse basato sul rango decidono chi passerà a destra e chi a sinistra. Un vento millenario con un battito di ciglia solleva appena un rametto che oscilla, una foglia cade senza rumore, il figlio arriva. Il figlio sono io. La data è oggi.

Mia sorella mi aspetta all'ingresso del pronto soccorso, è seria ma non affranta, Vieni - mi fa - è nella 26D. Non è affranta, stanza 26D: così tenue s'illumina nel mio cuore un lumino minuscolo di speranza, dell'intensità, tanto per dire, di un cerino pallido e storto esposto ai venti del nord. Il personale di turno non mi dice nulla, non mi guarda nemmeno, seguendo mia sorella io entro nella piccola stanza 26D, Ecco - mi fa senza dire altro e guardando in terra, così guardo e a ridosso del muro c'era una barella piccola da ospedale, di metallo e con le ruote e tutto quanto la rendeva riconoscibile come una barella e sopra c'era un lenzuolo bianco, quasi bello, a coprire una forma con tutto quanto necessario per renderla riconoscibile quale una forma umana, e infatti, infatti sotto al lenzuolo c'era questo essere umano, il mio unico padre, e con una crosta di sangue rappreso sul naso e la testa un po' girata verso il muro come per un ultimo pudore di non guardarlo e il mio cerino storto s'è spento e il respiro anche a cercarlo bene era proprio assente dal suo corpo e forse anche dal mio, tanto che sono rimasti increduli i cuori, tutti e tre i cuori, che erano i seguenti:

Il cuore numero uno) Era il suo, incredulo per essersi fermato dopo la radicata abitudine d'aver battuto per tanto tempo, dopo tutte le avventure passate insieme al resto del corpo, come quella volta che, durante la guerra, mio padre marinaio imbarcato su una fregata italiana e sotto il fuoco aereo amico, naufragò in acque scure e dicembrine e, per non morire di freddo nuotò e nuotò per otto ore di fila e fu infine salvato da un'altra nave, tirato su in condizioni incredibilmente perfette tanto da meritare una licenza premio. Quella volta, di tutto l'equipaggio si salvarono solo in otto.

Il cuore numero due) Era quello bluastro rozzamente tatuato sul suo braccio sinistro e con sotto due lettere puntate: E.L. corrispondenti alle iniziali di un amore lontanissimo, Elsa Landi, cantante. Cara Elsa, muore oggi l'ultimo dei tuoi ammiratori.

Il cuore numero tre) Era il mio, incredulo del fatto che si possa uscire di casa una mattina, lasciando il letto sfatto e le bucce d'arancia nel cestino, senza sapere che non si tornerà mai più; che possano le coincidenze essere a volte tanto coincidenti e spietate da far passare un camion rosso di ferro nel momento esatto in cui il "cuore numero uno" di cui sopra salta, anche meritatamente, un turno di lavoro; incredulo che possano viversi vite parallele e vicendevolemente ignare le une delle altre, come quelle vite dei ragnetti arancioni con la loro logica umanamente illeggibile; di un ospedale sul colle che ci doveva pensare lui e invece no; della nostra fragilità, dell'ineluttabilità degli eventi, delle foglie cadenti senza rumore, dei tatuaggi fatti ma poi va tutto in un altro modo, di marinai di guerre e di questa voglia assurda di continuare, malgrado iddio, per vedere che succede, poi.

Ciao papà, non te la prendere, cadono a volte le foglie senza fare nessun rumore.

domenica 25 agosto 2013

QUALORA

Vuoi andare a scuola o all'asilo? - mi fa. Avevo tre anni e mica la sapevo la differenza tra le due alternative, sapevo solo che avrei dovuto dare una risposta decisa, come lui s'aspettava, e così dissi "alla tilo". Né sapevo ancora che quell'espressione sul suo volto, quell'espressione che seguì, aveva un nome e questo nome era delusione e la vidi senza saperne il nome e la sensazione era mia ed era brutta, come di ansia come di irrecuperabilità. Così passò un anno, liscio liscio. Ma poi l'anno seguente lui tornò all'attacco con la stessa domanda e stavolta risposi, tanto per cambiare, "a scuola". Ormai ero grande. La maestra disse va bene, disse, proviamo qualche mese, disse, qualora il ragazzo andasse bene, qualora disse (una parola da tenere d'occhio), qualora andasse, allora, disse.

A scuola ci sono andato la prima volta che avevo quattro anni e il malessere che da lì è cominciato me lo porto ancora con me, il malessere che sono io, buongiorno, sono io. Senti papà, signora maestra, sentite, il difficile non era fare le stanghette dritte, quelle le ho sapute fare. Il difficile era integrarmi con gli altri e non sentirmi a disagio. Questo no, non ci sono riuscito. E non ci sono riuscito più, nella vita, infatti sono a disagio con gli altri perché mi sento diverso da tutti e questa sensazione mette una barriera all'empatia. Una barriera come una stanghetta, dritta, che ho saputo fare.

Mi piaceva andare a scuola e anche tornare da scuola, quello che non mi piaceva era tutto quello che stava nel mezzo. Il primo anno mi accompagnavano, non mi ricordo niente, solo il corso di inglese dopo le lezioni (picture, chair, horse, table, mai naim is maaco, uotz ioo naim?) e un mio compagno che piangeva sempre ed era americano. Gli chiesi se piangeva perché era americano ma non capì il nesso e nemmeno io, fece no con la testa, the naysayer.

Il secondo anno andavo da solo. Ormai ero grande. Per andare e tornare dovevo attraversare un bel prato curato con un alberello di corbezzolo che mi sembrava molto grande, ma non poteva esserlo davvero, ed era carico di frutti rugosi gialli e rossi che staccavo per tirarli sulla strada e vedere cosa succedeva quando un'automobile li schiacciava, passando. La scuola era di là della strada, c'erano poche automobili e io sapevo che dovevo guardare di qua e di là prima di attraversare, e ci andavo a scuola, controvoglia ma ci andavo, col grembiule blu e il fiocco bianco, con la cartella semivuota in spalla e un disagio enorme nel cuore. Era difficile perché c'erano gli altri e potevano vedermi, gli altri inquisitori, giudicanti, osservatori della mia diversità, gli altri così altri. Sarebbe stato un mondo bellissimo non ci fossero stati loro, se fossimo stati solo io e e il prato verde e il corbezzolo e i frutti e la strada deserta e il guardare di qua e di là lo stesso, e la cartella grembiule fiocco e la scuola vuota coi cartelli appesi: Albero, Bicicletta, Casa. Disagio.

Nella mia classe c'era, allievo, il figlio del bidello. I bambini non sapevano il suo nome, era per tutti il figlio del bidello, ed era particolare poiché usava un lessico curioso e sconosciuto ai più. Ad esempio diceva "assedia" per "sedia", diceva "cranio" per "testa", troncava tutti i verbi all'infinito (vede', sta'), diceva "ito" per "andato" e "'nteso" per dire sia "sentito" sia "capito". Una volta la maestra lo fece sedere vicino a me, ma mentre io volevo stare attento lui volle a tutti i costi spiegarmi i primi rudimenti del sesso. Ao - disse, sgomitando - se ciai la pischella, cellai? ci devi da fa' er sesso, cioè all'ammore. Come si fa? - mi informai. Ce devi ficca' er cazzo naa fregna e spigne e smòve - disse con aria esperta e facendo un gesto con il pugno semichiuso. Io sapevo più o meno cosa fosse il  pene ma non il cazzo, lo avevo confuso con i testicoli, quindi non capendo gli chiesi spiegazioni, ma, dissi, ma scusa come fa a entrarci il cazzo se è tutto morbido e sono un po' due? No, mi fa, bada che quanno che stai là che lo stai a fa', te diventa duro, come presempio quanno che tu' madre te fa er bagno e smùcina. Ma scusa - faccio - ma non sarebbe meglio infilarci il pene? No no - disse - 'nce mette robba, er cazzo ce devi ficca', bada che ce cape, eppoi è bello e dopo mpo' sburi. Non avevo capito tutto ma non volli approfondire perché la maestra aveva iniziato a guardarci.

Poi c'era una bambina che era bellissima per i seguenti motivi:

  1. Era mora (quindi non come mia madre)
  2. Era molto riccia (vedi sopra)
  3. Era intraprendente
  4. Aveva visto oltre la mia barriera 
  5. Varie 
La bambina si chiamava Giovanna. Un giorno la bambina Giovanna chiese alla maestra se si poteva sedere lì, indicando col dito il banco dov'ero io. Mi vergognavo e non mi girai per guardare dove fosse "lì" ma capii che c'erano rogne in vista e mi concentrai al massimo per vedere se fossi riuscito a sparire. Non funzionò. La maestra non ebbe nulla da obiettare e la bambina Giovanna mi sedette accanto, disse ciao, io mugugnai guardandola di sottecchi, rogne in vista, allora mi passò un foglietto sotto al banco, io lo lasciai lì, rogne in vista, e lei disse "non lo leggi?", sì, dissi, rogne, non avevo scelta, lo lessi, facevo la seconda elementare, avevo cinque anni, sapevo leggere, e il foglietto era scritto con un inchiostro turchese che mi piacque tantissimo, rogne, dopo averlo letto lo rimisi sotto al banco, come se nulla fosse successo, come se io non fossi esistito, come se non avessi potuto cambiare la storia con la mia semplice lettura di un semplice foglietto scritto ad inchiostro turchese dalla bambina Giovanna, bellissima per cinque motivi, rogne. Invece no, la storia si cambia, eccome, la cambiamo tutti anche con la lettura di un semplice foglietto, sul quale ad inchiostro turchese era chiaramente scritto: "Vuoi essere il mio fidanzato?". 

Femmina spregevole. Ora ci si aspettava qualcosa da me, proprio quello che volevo evitare. E io zitto. E lei tenace: "Non mi rispondi? Ci vuoi pensare?". A sette anni si può essere già donne. Feci un cenno con la testa che poteva significare sì, ma sapevo che ero spacciato, avrei dovuto rispondere prima o poi, non se lo sarebbe dimenticato. Ma cosa si sarebbe aspettata da me, una volta fidanzati? A quali scomodi doveri sarei andato incontro? Ad infastidirmi era la mia inadeguatezza, più che la situazione, ma non potevo pensare di non rispondere e farla franca. Come previsto tornò dopo qualche giorno a sedersi accanto a me, fissandomi con aria autorevole, ineluttabile e definitiva, e puntando i pugni sui fianchi e coi gomiti appuntiti e alari, chiese: "Allora?". Rogne. Siccome avevo più vergogna a dire no che a dire sì, scelsi l'unica strada possibile, cioè il patibolo, arrossii di fuoco, e sì. Il suo sorriso illuminò l'aula, fece scomparire la maestra e tutti gli altri alunni, bruciò i cartelli appesi Albero Bicicletta, uccise il figlio del bidello e crollarono i muri, la storia suonò il suo gong, bambina Giovanna il tuo sorriso di perle era valso tutte le pene del mondo ed ora eravamo due, giganteschi e inutili e incendiari e assassini, qualora, noi.

venerdì 28 giugno 2013

LA STAGIONE DELLE FRAGOLE

E' successo che, come ogni bagnante, anche io sono entrato in acqua e però io ho sentito come delle punture successive, una scarica di punture, cinque forse, sì cinque, e non ho capito se scappare verso la salvezza della battima o se invece restare lì a gioire del dolore, che è preludio di ogni nascita. Ma io non so niente di imperativi assoluti, non so la vita, nemmeno leggere io so, figurarsi se so, adesso, che fare.

Stella di mare, conficchi le punte nella dura carne mia e ti nascondi sul fondo e cerchi vie di fuga e respiri acqua perché c'è l'aria di fuori, troppa aria sull'arenile e tu non sai ancora camminare.

Stella di cielo, e brilli e brilli, come esplosione indotta, arrogante e ingenua come la speranza, chissà se hai ragione. Sei bella quando parli nei fiori a forma di microfono e sei ancora più bella quando sei irreparabilmente vicina, ma poi all'istante ti adombri e sembri trafitta quando pensi agli oppure ai ma ahinoi, o quando fai lo sguardo da bambina, o giri la testa per capire l'orologio o quando mordi la collana, e così, e così io forse ti amo, come esplosione indotta e scoppio, e scoppio io. E infatti.

I giochi non finiscono, sai? Finiscono le abitudini, le speranze e le fragole fuori di stagione, ma non i giochi, quelli che tu chiami impropriamente pazzia o casino e allora facciamola quella pazzia e quel casino, giochi da casinò, e allora giochiamo e ascolta, senti qui, non avere paura, è solo vita, quel posto in cui tutti stiamo per un po' e dove solo giocando si fa sul serio.

E hanno indagato queste mie mani enormi, hanno indagato in zone a traffico limitato, zone di guerra ed ecco cos'hanno trovato: primo, c'era la forma di un culo come si conviene, diosanto, culo sodo e rotondo e lattescente come una luna ma spaccata a metà, come un chicco di caffè non tostato e bianco, e poi, secondo, ho indagato sotto e poi dietro, alla bocca della verità che non sa mentire, al cento per cento di umidità, il luogo occulto dove persino le stelle marine sanno di fragola.

lunedì 24 giugno 2013

E INSOMMA

Il corpo umano è un grande difetto di cui i nei rappresentano la sola perfezione. In deroga. Io dei nei delle mie donne ho fatto mappe e ho dato loro nomi, nomi propri, nomi propri di neo perfetto di donna mia. Cicerone è stato l'ultimo che ho battezzato e poi dopo basta.

E insomma prima ho messo sul navigatore: piazza Bologna gelato bellezza momento topico. E' un navigatore molto evoluto. E insomma dopo aver messo le parole chiave lui ha risposto: "quaranta minuti a destinazione più la vita sconvolta; premere start per iniziare."

Anche il punto e virgola ha messo, che ti dicevo che è evoluto il mio navigatore? E insomma ho detto tra me e me, no dai, ho detto, anche la bellezza ha un limite di sopportazione. E insomma, sono tornato a casa.

venerdì 21 giugno 2013

CASOMAI

Da piccolo io, quand'ero piccolo, io da piccolo, bambo che ero, mi nutrivo di parole. Io le parole le parole io, le cercavo, le imparavo, le parole mi piacevano prima di tutto per il suono, che è la cosa più importante, in una parola: fonemi incollati dal caso o dalla storia o entrambi. Come può scrivere, un sordo?

Dopo il suono, poi dopo, viene l'armonia nell'alternanza delle lettere, se stanno bene così accoste, se sono assonanti o dissonanti, colorate o coloranti, usate o quasi nuove, fruste o vellutate eccetera - l'eccetera però è un'imperdonabile indolenza letteraria, uno schiaffo culturale, l'eccetera è volgare - le lettere, fruste o vellutate o volgari o eccelse, le lettere basse e alte, con grazie e prego lettere al vetro macchiate calde. Zucchero?

Per ultimo, ma di poco conto, viene il significato. Fonoestetica e fonosemantica, io da piccolo. Da piccolo io prendevo una parola dal vocabolario e la ripetevo mille e mille volte, usandola in contesti anche impropri, fino a mandarla in quella parte del cervello che non è più molle ma è roccia dura calcarea (non dire anima, resisti), per non dimenticarla più. Gli altri si stufavano, ma tant'è, erano altri. Una volta che un gruppetto di noi giovinastri, con me incluso, giocava in piazzetta facendo troppo baccano, una signora pacchiana e opulenta si affacciò alla finestra per intimarci di smettere o di fare meno rumore, allora io la guardai dal basso e ritto in piedi e rigido in piedi e i pugni stretti e in piedi nella mia bassezza e pieno di rancore, dal basso le gridai quella che doveva essere contemporaneamente la parola del giorno e la massima insolenza possibile: CASOMAI!  

Parole: evitare l'uso improprio o eccessivo.

lunedì 17 giugno 2013

ERI TU

Davanti a innumerevoli schiene di passanti qualunque, su ogni strada e in ogni angolo, ti ho cercata. E non c'eri, non c'eri, e non c'eri.

O eri tu? Eri tu a guidare l'autobus, a servirmi un caffè, tu con la testa immersa in un libro antico alla biblioteca Braidense o sotto forma di carattere tipografico di Giambattista Bodoni, eri tu nelle sembianze di pianta nell'orto botanico, tu come duomo tu come Brera, tu Aulente, tu bosco verticale, eri tu?

Sopra le onde sonore di mille anni che scorrono, ti ho cercata. E poi.

Ti ho cercata in un cibo perfetto di cuoco stellato e in un vino forte, estivo e viscoso, sul riflesso mobile e liquido della luna, dietro la luna, sopra la luna, e davanti a innumerevoli schiene di passanti qualunque, su ogni strada e in ogni angolo, ti ho cercata. Eri tu? Eri tu.

Eri tutto e non eri più, come l'illusione di una possibilità che arde, come la certezza di una solitudine viola, mordace e stantia.

martedì 11 giugno 2013

CUM GRANO SALIS - SINE GRANA DESCENDIT

Io femmina, i fianchi sottili e la testa grande, piena di idee che... cioè non proprio idee, sono - diciamo così - possibilità, aridi nuclei di idee, come grani ecco, e me ne sto qui con la mia testa grande di idee in grani che a mano a mano - diciamo così - una alla volta io le risolvo, ecco, le metabolizzo le idee e così, a mano a mano, la testa si fa più leggera, si svuota questa mia testa grande di idee possibili in aridi grani. "L'evacuazione si terrà in via Napoli" - dice l'annunciatore, ma per me non c'è altra dimensione che il tempo, che è l'unico luogo che è la ragione per cui - diciamo così - io sto.

Lui maschio, le sue mani grandi, contadine, mani di lavoro di presa di saburra, mani competenti tanto che tutto in lui è riconducibile alle sue mani, e le mani ad una sola mano - diciamo così -  come condensato del tutto, e quell'una mano lo sa come prendermi e quando lo fa, mi rivolta, sottosopra, attestaingiù. E così mi sconvolge mi turba mi dissesta, io che m'ero appena svuotata dalle idee graniformi, io che stavo quasi bene, devo ricominciare tutto daccapo, come se l'unica cosa cambiata tra il prima e il dopo fosse solo quella mia asciutta dimensione, il tempo ho detto, e rieccoli i miei grani di idee, sempre quelli, che gli ultimi saranno i primi, rieccoli e ricomincio a risolverli, uno via l'altro via l'uno via l'altro via, e a mano a mano e a mare a mare e amare amare io femmina fianchi sottili testa grande dentro la sabbia in grani, tu mano tu al ladro al ladro! ridammi le mie idee, tu io, mano, clessidra, stiamo.



[cles-sì-dra] s.f.
Orologio ad acqua o a sabbia, formato da due vasi di forma conica uniti per i vertici, che misura il tempo in base alla quantità di acqua o sabbia affluita attraverso un forellino che mette in comunicazione il vaso superiore con quello inferiore.

domenica 9 giugno 2013

DONDOLII, IPERBOLI E PINGUINI

Un pinguino, ti vorrei regalare, di quelli piccoli, di quelli che per guardarti girano la testa alternando l'occhio destro a quello sinistro al destro al sinistro, in un dondolio ritmato così tenero che, ti vorrei regalare un pinguino, a te. Destro, sinistro, non per negare ma per guardare, un pinguino ti vorrei regalare e per farti compagnia e come emblema di famiglia e come surrogato di me. Di famiglia, di me.

Ma guardalo com'è, un esserino elegante, livreato e tutto determinato, pur nella sua goffa andatura. Lo ameresti? Con una carezza pinnata ti sveglierebbe la mattina di buon'ora per convincerti a portarlo a spasso, impaziente batterebbe il piedino mentre fai colazione, poi si butterebbe a scivolo, giù per le scale, fino al pianerottolo, e dondolando al tuo fianco lungo il marciapiede si farebbe portare al parco a guardare la città mentre questa prende vita. E parco e città e vita.

Sei il mio cerchio, cioè l'insieme dei punti equidistanti da me. Geometria dei sentimenti, iperboli di cui siamo i fuochi ardenti. Fuochissimi ardentissimi da morire iperboli, cioè.

E adesso, ritmo!